Colpevoli. Come i media condannano prima dei Tribunali

Colpevoli. Come i media condannano prima dei Tribunali

Copertina

“Lo condusse al posto di polizia più vicino: che non era però tanto vicino, sicché alla folla che andava formandosi dietro – un corteo prima di arrivare a destinazione – più volte fu costretto a dichiarare che si trattava di un presunto figlio dell’ottantanove; mai dimenticando, secondo diritto, il presunto: che come ognun sa è invece sinonimo, nel corrente linguaggio giornalistico, di colpevolezza certa”

LEONARDO SCIASCIA, Il cavaliere e la morte

 

Essere o non essere, questo è il dilemma.

Quante volte abbiamo sentito, detto, invocato il più famoso dei dilemmi cornuti della storia del mondo. Lo sappiamo, un dilemma implica la scelta tra due contrastanti soluzioni quando ogni altra via d’uscita è esclusa.

Direte, cosa c’entra Amleto con il rapporto tra media e processo penale? C’entra, seguitemi.

Il rapporto tra informazione e giustizia è infatti di per sé dilemmatico: se per la giustizia il problema ha due soluzioni (essere innocente o non essere innocente) per l’informazione le alternative paiono diverse. E l’equilibrio tra le possibili soluzioni non è da ritenersi interamente accettabile.

Infatti, si scontrano inevitabilmente diritti e interessi di pari rango: il diritto di cronaca e il diritto alla privacy; la presunzione di innocenza e l’amministrazione della giustizia “in nome del popolo”.

E si capisce come contemperare questi diritti non è cosa banale.

Ma facciamo un passo indietro e poniamoci un’altra questione: a cosa serve un processo?

Vogliamo azzardare una risposta: la riconduzione del disordine all’ordine. Infatti, il processo, con le sue procedure volte alla ricostruzione di un particolare tipo di verità, la verità giudiziaria, riveste nella nostra epoca il compito che storicamente è stato affidato al rito. E da esso ne mutua legittimità, termini, simboli.

Se nei decenni passati il sacerdote di questo rito laico è stato il giudice (meglio ancora se istruttore o Pubblico ministero), oggi è il giornalista. Se prima il tempio rituale era il Tribunale, oggi sono i salotti televisivi.

Dunque, dove eravamo rimasti?

Il ritorno in televisione di Enzo Tortora dopo il processo

Con l’avanzare degli anni, partendo dal Caso Montesi e passando per Pietro Valpreda, Enzo Tortora, Marta Russo, è emerso il fenomeno del “processo mediatico”.

Tra sondaggi televisivi per far decidere al pubblico la colpevolezza dell’indagato e resoconti scandalistici della vita dello stesso, giornali, televisioni (e oggi il web) sono diventati il quarto grado di giudizio dell’ordinamento italiano. E se nei gradi, per così dire ufficiali, l’ordine può essere ristabilito anche tramite una sentenza assolutoria, nel quarto grado il disordine si può ridurre in un solo modo: condannando.

Nel “Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale” dell’Unione delle Camere Penali Italiane, gli autori sottolineano come il 40% degli articoli analizzati ha una chiara impronta colpevolista, mentre solo nel 4% dei casi è rispettata la presunzione di innocenza.

Più di tre articoli su quattro riportano fatti che non sono stati né accertati in via definitiva né ammessi dall’indagato.

Il teatro del reale

William Thomas

Ma esistono meccanismi comuni, un canovaccio attorno al quale, pur mutando battute e attori, i media ri-costruiscono un caso? Quali sono gli attori? E le fonti?

Per provare a rispondere, partiamo da ciò che Francesco Petrelli sostiene nel Libro bianco: questa “forma del tutto nuova e potentissima di canalizzazione dell’interesse sui singoli eventi giudiziari è costituita certamente dalla produzione di una sorta di realtà “parallela”, ovvero di un processo autonomo, frutto di una vera e propria “rappresentazione sociale”, per fare riferimento ad una categoria tratta dalle scienze sociali, nell’ambito delle quali è vero ciò che l’informazione dice essere vero e non ciò che è reale”.

Si verifica dunque ciò che teorizzò William Thomas a fine anni ‘20: se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze.

In altre parole, questo è il meccanismo: sento una notizia data per certa, definisco l’imputato come colpevole rendendo reale la conseguenza, ossia la sua colpevolezza.

Le fonti e gli attori

Un esempio verosimile di trasmissione delle informazioni tra commissariati e redazioni

Sono un grande fan di Montalbano. E quando il nostro commissario vuole raggiungere un obiettivo preciso, non esita a rivolgersi all’amico giornalista Nicolò Zito.

La realtà non è diversa dalla fiction. Infatti, le fonti principali sono due: procure e commissariati. E ciò avviene tendenzialmente in fase di indagine preliminare, senza accertamento definitivo da alcun tribunale.

Ma nella nostra storia unitaria non sempre il focus principale della cronaca giudiziaria è stato sulle indagini preliminari. Almeno per un secolo, la cronaca giudiziaria seguiva i dibattimenti, visti come il luogo dove si giocava la vera partita, mentre le indagini preliminari venivano seguite dalla cronaca nera.

Poi il mondo cambiò.

Arrivò il ‘68, le proteste di studenti e operai, la sinistra extraparlamentare, parte della magistratura si politicizzò fortemente e infine, il terrorismo. Con gli anni di piombo la musica cambiò e, per ragioni differenti, i metodi di comunicazione pubblica della magistratura e delle forze di polizia mutarono: da un lavoro sottotraccia si passò al “far bene e farlo sapere”.

Di conseguenza e in contemporanea, l’attenzione dei media si spostò verso le indagini preliminari.

Oggi la situazione, riportata dallo stesso Libro bianco, è questa: quasi sette articoli su dieci riferiscono notizie che riguardano le indagini; il 13% informa sulla fase pubblica del dibattimento; solamente l’11% riporta l’esito del processo e il contenuto della sentenza.

Rispetto alle fonti, come dicevamo la più citata è l’accusa: l’ufficio del PM è la fonte di un articolo su tre, il 28% la Polizia Giudiziaria. Solamente il 7% riporta notizie di fonte difensiva; spazio che si riduce al 2,6% nel momento in cui la fonte è esclusivamente la difesa.

Il canovaccio

Antonio Di Pietro, dominatore indiscusso dell’era di Tangentopoli

Sappiamo come i giornali scrivano ciò che si aspettano che i propri lettori vogliano leggere, le televisioni trasmettano ciò che credono che il proprio pubblico voglia guardare e i content creator postano ciò che funziona per il proprio target. Lo scandalo, il sangue, l’emotività del delitto, è dunque un argomento voluto, cercato.

Il nostro ordinamento si è occupato di ciò, ponendo alcuni limiti alla pubblicazione di fatti sensibili come le indagini. Uno dei limiti è il divieto di pubblicazione di notizie su procedimenti che non siano arrivate a conoscenza dell’interessato. E qui entra in gioco l’informazione di garanzia.

Assurta alle cronache durante Mani Pulite, questa presenta l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto. Un prodigio di civiltà giuridica, si direbbe. Peccato che, visto che appunto l’imputato viene a conoscenza delle sue accuse, queste possono di conseguenza essere pubblicate. E quindi il giorno dopo tutto ciò va sui giornali, passa da una bocca all’altra; imperiose richieste di dimissioni emergono, parte la gogna mediatica: il danno è fatto, la reputazione compromessa.

Il pubblico dolore

Le trasmissioni di Barbara D’Urso sono tra le massime espressioni di “TV del dolore”

La televisione, che per i suoi tempi si presta particolarmente a questo modo di comunicare, sublima questo concetto nelle varie trasmissioni di  “TV del dolore”. Le caratteristiche di questi programmi sono ben definite: il frame – la cornice attraverso cui leggere e interpretare i fatti in vista della valutazione e della decisione – è la “focalizzazione rigida” su un sospetto, enfatizzando alcuni indizi di colpevolezza e non considerando alcuni che porterebbero a pensare all’innocenza.

La TV non è l’unico mezzo – e oggi neppure il principale – attraverso cui si veicolano messaggi di polarizzazione e colpevolizzazione. Sappiamo infatti che il web non solamente ricalca questi meccanismi, ma per quanto possibile li amplifica.

Il funzionamento di base degli algoritmi che guidano i social è legato a doppio filo alle nostre emozioni primarie. Non è un caso se contenuti pieni di rabbia e paura creano più engagement, montando di conseguenza un sentimento di indignazione collettiva.

In definitiva, la filiera dell’indignazione si è accorciata: non serve più attendere la notizia mediata da giornali e tv. Basta un tweet, anche fallace, di una persona che è all’interno della nostra bolla. E all’interno di questo rito collettivo, che da decenni e con mezzi diversi spadroneggia nel nostro Paese, i feriti e i mutilati sono molti, ma uno è il vero grande morto: il principio di presunzione di innocenza.

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